La stima della numerosità è distinta nella corteccia visiva

 

 

DIANE RICHMOND & GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 07 marzo 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La capacità umana di contare è stata tradizionalmente messa in rapporto con l’adozione di processi di simbolizzazione che il cervello avrebbe sviluppato in concomitanza o quale conseguenza delle abilità di comunicazione verbale. Sulla base di questo assunto, si ritiene che le più semplici operazioni aritmetiche di aggiunta o sottrazione di unità siano basate sulla numerazione, intesa come operazione linguistica e cognitiva consistente nella denominazione delle cifre e nel loro ordinamento secondo una serie crescente di quantità intere.

Una tale concezione ha dato luogo all’equazione: matematica = linguaggio[1]. A lungo questa equivalenza non è stata messa in discussione, sia per la ragionevolezza intuitiva del rapporto fra due facoltà esclusivamente umane, sia perché lo sviluppo e l’uso dei linguaggi informatici ha accresciuto enormemente l’evidenza della necessità elementare, per qualsiasi operazione di computo o comunicazione, dell’operazione astratta di attribuzione di valore simbolico a dei segni.

Si è poi scoperto che il nostro cervello nella prima infanzia, quando non ha ancora appreso l’uso del sistema simbolico dei numeri, è in grado di effettuare stime di numerosità distinte da parametri interferenti come le dimensioni degli elementi e lo spazio occupato da un insieme, e di giudicare efficacemente per comparazione, ritenendo correttamente maggiore un insieme costituito da un maggior numero di elementi.

L’approssimazione di grandi quantità nell’uomo è stata identificata come un blocco costruttivo della cognizione matematica, e la comprensione della sua base neurofunzionale potrebbe costituire un progresso nella conoscenza neuroscientifica e un supporto nella promozione di abilità finalizzate allo studio scolastico. Ma, nonostante i numerosi studi condotti, il meccanismo sottostante questa abilità non è ancora stato individuato con precisione.

I problemi per una piena comprensione della neurofisiologia della capacità di approssimazione del valore di numerosità vengono dalla difficoltà di operare una precisa e analitica dissezione del processo, a fronte della risposta percettiva complessiva a tutte le caratteristiche di un insieme. Infatti, ciascun insieme non è caratterizzato solo dal numero degli elementi che lo costituiscono, ma anche da tratti non numerici, naturalmente correlati con la numerosità: un insieme molto numeroso occupa una superficie più estesa; una densità di distribuzione elevata può ridurre il volume dell’insieme, e così via.

Il corrente paradigma EEG contraddistinto dalla frequenza isola risposte specifiche al numero e alle dimensioni non numeriche, costituendo uno strumento prezioso per indagare l’abilità innata di stima della numerosità. Amandine Van Rinsveld e colleghi hanno dimostrato che quando la numerosità è totalmente separata dalle altre dimensioni nelle sequenze di stimoli, i cambiamenti di ciascuna sono automaticamente discriminati nella corteccia visiva primaria, evidenziando lo status della numerosità quale elemento visivo primario.

(Van Rinsveld A., et al. The neural signature of numerosity by separating numerical and continuous magnitude extraction in visual cortex with frequency-tagged EEG. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi: 10.1073/pnas.1917849117, 2020).

La provenienza degli autori è la seguente: Center for Research in Cognition and Neurosciences, ULB Neuroscience Institute, Free University of Bruxelles, Brussels (Belgio); Department of Psychology, Stanford University, Stanford, CA (USA); Department of Psychology, Centre for Vision Research, York University, Toronto, ON (Canada).

Durante il secolo che ha preceduto l’epoca attuale, la diffusissima convinzione culturale dell’origine dei concetti matematici nella mente umana dallo sviluppo in chiave logica dell’abilità cognitiva di simbolizzazione, ha indotto a ritenere che tutto quanto apparteneva alla sfera di numeri e calcolo fosse basato su un apprendimento logico-linguistico di concetti introdotti ex-novo dall’insegnamento familiare e scolastico. Concetti che si riteneva non potessero fare a meno della denominazione dei numeri con parole rappresentate in cifre, dei segni e dei funtori verbali necessari ad indicare le quattro operazioni (più, meno, per, diviso), così come di tutte le parole impiegate da pazienti insegnanti nel trasmettere le prime nozioni e chiedere agli alunni, per metterli alla prova: “Quanti sono? Molti, pochi? Qual è il numero? Sono di più questi o quelli? Perché, questi quanti sono? Allora facciamo la numerazione per vedere se questo numero viene prima o dopo quello…”.

L’esistenza di processi mentali elementari legati alla percezione visiva delle quantità non era stata nemmeno ipotizzata; e dunque non si riteneva che potesse esistere un “senso dei numeri” evoluto nei mammiferi e presente come proprietà innata nei neonati della nostra specie.

Per tale ragione, studiando l’intelligenza animale, i ricercatori del ventesimo secolo hanno a lungo trascurato l’indagine su abilità di specie diverse dalla nostra nell’esecuzione di compiti che noi svolgiamo secondo le regole dell’aritmetica.

Molto probabilmente, oltre all’equivalenza fra facoltà linguistiche e simboliche in genere, un altro ostacolo invisibile alla ricerca di abilità di stima quantitativa negli animali è stato rappresentato da una preclusione preconcetta, originata da una celebre esperienza di oltre un secolo fa, ma ancora oggetto di insegnamento universitario.

All’inizio del Novecento, un elegante cavallo di razza Orlov noto come Kluge Hans[2] si esibiva con il suo addestratore e professore di matematica Wilhelm von Osten, rispondendo col movimento di una zampa a quesiti di questo genere: quanto fa 5 più 3? Ponendo la domanda, von Osten allineava su un tavolo cinque oggetti e su un altro tavolo tre, con l’animale che sembrava pensare prima di rispondere battendo in terra uno zoccolo per otto volte.

I quesiti aritmetici, che variavano molto, venivano proposti spesso a voce alta perché il pubblico sentisse, e venivano anche accuratamente scritti su una grande lavagna. Hans poteva sommare anche due frazioni, come 2/5 e 1/2, percuotendo il suolo con lo zoccolo prima nove volte e poi dieci, componendo 9/10. In breve, la sua capacità di calcolo appariva prodigiosa.

Furono avanzate varie ipotesi per spiegare in base a un trucco queste prestazioni, ma von Osten insisteva che non c’era alcun inganno ma solo addestramento, e invitava a verificare di persona chiunque mettesse in dubbio le reali capacità del cavallo. Nel settembre del 1904 – come riferisce Fernald nel suo racconto pubblicato ottanta anni dopo[3] – una commissione di esperti, che includeva l’eminente psicologo tedesco Carl Stumpf, non essendo riuscita a scoprire alcun mezzo ingannevole per trasmettere le risposte ad Hans, dichiarò che le abilità aritmetiche del cavallo erano reali.

Oskar Pfungst, un allievo di Stumpf, non rimase soddisfatto dall’esame della commissione, e chiese di poter eseguire a sua volta degli esperimenti, ufficialmente per approfondire la conoscenza di ogni aspetto della prodigiosa intelligenza del quadrupede.

Gli esperimenti di Pfungst, che per i limiti imposti a questo scritto non possono essere descritti, rimangono un modello di inventiva e rigore, anche secondo gli standard attuali. In sintesi, l’ipotesi di lavoro del ricercatore era che il cavallo era stato addestrato a picchiare la zampa in terra fino a un segnale di stop, e che von Osten o qualcuno del pubblico inviava un messaggio di arresto quando i colpi avevano raggiunto il numero della risposta al quesito.

Escluso l’intervento di qualcuno del pubblico, e accortosi che von Osten appariva in totale buona fede, Pfungst ipotizzò che l’addestratore, quando si era giunti al numero giusto, inviava inconsapevolmente un messaggio quasi subliminale, ma percepito dal cavallo, con la mimica facciale o l’atteggiamento posturale. Per aggirare questo ipotetico ostacolo, il ricercatore usò una procedura che gli consentiva di scrivere il calcolo su un pannello inizialmente esposto alla vista dell’addestratore e poi, prima di completare la scrittura dell’operazione, orientato in modo che potesse vederlo solo Hans.

Pfungst condusse numerose prove, sia in condizioni in cui von Osten poteva leggere il quesito sia, come si è detto, con il pannello rivolto esclusivamente verso l’animale. A volte, l’allievo di Stumpf, cancellava e cambiava rapidamente una cifra dopo aver mostrato il pannello a von Osten, così che lui vedeva, ad esempio, 6 + 2 e il cavallo 6 + 3. I risultati non consentivano dubbi: quando l’addestratore conosceva la domanda, la risposta del cavallo era giusta; quando il quesito corretto era visto solo dall’animale, immancabilmente la risposta era sbagliata.

Anche se il messaggio involontario era dato solo dal sollevamento inavvertito delle sopracciglia e dal battito delle palpebre, era sufficiente all’equino per fermare il suo ritmo.

Il lavoro di Pfungst, che ebbe grande risonanza internazionale, inevitabilmente gettò discredito sulla ricerca che indagava l’intelligenza animale, su Stumpf e su tutti gli altri esperti che avevano accreditato quel bell’esemplare equino di una facoltà cognitiva straordinaria.

Il “fenomeno Kluge Hans” ha pesato a lungo come un fardello sulla conoscenza delle abilità di stima quantitativa degli animali, creando un vero e proprio pregiudizio negativo verso questo tipo di studi. La massima parte di coloro che studiavano i processi cognitivi prese a diffidare di qualsiasi esperimento di valutazione dell’intelligenza animale basato su prove comportamentali, concedendo fiducia, nei decenni successivi, solo ai paradigmi introdotti in etologia da Konrad Lorenz per conoscere i comportamenti innati.

Intanto, gli esperimenti sulla capacità degli animali di riconoscere diversità e uguaglianza nel numero di oggetti continuavano, ma – osserva Stanislas Dehaene – i ricercatori “preferivano attribuire agli animali misteriose abilità quali la facoltà di discriminazione del ritmo, per esempio, piuttosto che ammettere che essi potessero enumerare una raccolta di oggetti. In breve, la comunità scientifica tendeva a gettar via il bambino con l’acqua del bagno”[4].

In effetti, Pfungst aveva dimostrato che Hans non aveva l’intelligenza prodigiosa che il suo addestratore gli aveva attribuito, non che non vi sia alcuna possibilità che il cervello dei mammiferi stimi in qualche modo la numerosità.

A peggiorare le cose per i ricercatori impegnati in questo campo ha contribuito il verificarsi di un caso simile a quasi cento anni di distanza: Poupette, un grazioso cagnolino che avrebbe avuto – secondo i suoi proprietari – la capacità di sommare cifre scritte su un foglio, dando risposta mediante colpi di zampetta. Anche in questo caso erano in questione segnali inconsapevoli, quali il battere le palpebre e lievi movimenti di una mano[5].

L’eliminazione del fattore di interazione umana, la realizzazione di paradigmi rigorosi, la selezione del campione nel rispetto di rigidi parametri di significatività statistica, l’impiego di strumenti tecnologici avanzati in ogni fase delle prove, la presenza costante della procedura del controllo secondo i criteri adottati in altre branche della ricerca animale hanno consentito di ottenere risultati sperimentali costantemente replicabili, in laboratori indipendenti e altamente affidabili.

La ricerca scientifica ha così rivelato una realtà molto stimolante: numerose specie animali, anche filogeneticamente distanti dai mammiferi, sono in grado di stimare la numerosità mediante un processo più elementare della simbolizzazione numerica, generalmente basato sulla percezione visiva ed efficace per piccoli numeri. Abbiamo riferito più volte di queste abilità in passato, menzionando gli esperimenti classici e paradigmatici con gli uccelli[6] e i risultati della ricerca in roditori e primati, proponendo la metafora dell’accumulatore, compiutamente illustrata da Stanislas Dehaene[7], per delineare un processo che sembra accomunare animali e bambini in età prescolare, consentendo loro di giudicare, comparare e riconoscere insiemi più o meno numerosi senza farsi ingannare dalle dimensioni degli oggetti, dallo spazio occupato e da altri parametri interferenti.

Anche la scoperta delle abilità aritmetiche innate dei bambini, verosimilmente dovute a un processo simile se non identico a quello degli animali, ha richiesto un notevole impegno e il superamento di consolidate concezioni preconcette. In ambito psicopedagogico dominava la teoria costruttivista di Jean Piaget, negli sviluppi di epigoni e allievi che avevano influenzato due o tre generazioni di psicologi[8].

Per abbattere l’edificio di congetture infondate e procedere a un’analisi realmente scientifica delle abilità dei bambini, è stato necessario dimostrare gli errori di Piaget, come quello compiuto nel classico “test della conservazione del numero”, i cui risultati cambiano del tutto al mutare del contesto e del grado di motivazione dei piccoli. La prima dimostrazione di questi errori risale al 1967, con la pubblicazione su Science di uno studio condotto al MIT da Jacques Mehler e Tom Bever[9]; ma la strada è stata lunga e faticosa, almeno fino al 1992, quando Karen Wynn pubblicò su Nature l’ormai famoso studio sull’addizione e la sottrazione compiuta dal cervello di bambini di 4 e 5 mesi[10].

Le capacità aritmetiche innate rimangono limitate alla gestione di “piccole numerosità” – come si dice con un brutto neologismo gergale – in genere non superiori a 4 elementi: in particolare, negli esperimenti, le addizioni e sottrazioni comprese sono quelle con un massimo di 3 elementi.  I bambini di età inferiore a un anno non sembrano distinguere 4 punti (dot), ossia quattro piccole macchie circolari, da 5 o 6[11].

Questa particolare abilità innata di valutare in maniera approssimativa la quantità di elementi rilevati con lo sguardo e il suo impiego per semplici decisioni, nell’insieme costituiscono il cosiddetto “senso dei numeri”, che da molti ricercatori negli ultimi due decenni è stato associato alle risorse del nostro intelletto necessarie per l’apprendimento e la pratica della matematica. Anche se la natura dei meccanismi che consentono di estrarre informazioni numeriche da stimoli ambientali è ancora oggetto di dibattito e materia di controversie. Un problema, ad esempio, è come elementi in covarianza con la numerosità, quale la superfice occupata dagli elementi visti, possano essere filtrati, in modo tale da non farli interferire nella stima.

Lo studio di Amandine Van Rinsveld e colleghi ha adottato un approccio EEG contraddistinto dalla frequenza che ha consentito di separare la misura delle risposte alla numerosità da quelle a tutti gli altri parametri dello stimolo. I risultati, per il cui dettaglio si rinvia al testo integrale del lavoro originale, dimostrano che la numerosità è elaborata indipendentemente nella corteccia visiva primaria in una fase iniziale dell’attivazione corticale di risposta. Gli esperimenti hanno consentito di distinguere i correlati delle dimensioni continue – che corrispondono a percetti visivi di base – dall’elaborazione della numerosità in varie condizioni di prova, fornendo una dimostrazione sufficientemente sicura di aver individuato un contrassegno EEG del processo di rilievo della numerosità.

 

Gli autori della nota ringraziano il presidente Giuseppe Perrella per la storia del Kluge Hans, la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invitano alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond & Giovanni Rossi

BM&L-07 marzo 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Cfr. Boysen S. T. & Capaldi E. J. (Eds.), The Development of Numerical Competence: Animal and Human Models. Hillsdale NJ: Erlbaum 1993.

[2] Letteralmente “Giovannino l’intelligente”: Hans era in origine il diminutivo di Johannes, ossia Giovanni in latino medievale; oggi è considerato un nome a sé.

[3] Fernald L. D., The Hans Legacy: A Story of Science. Hillsdale, NJ: Erlbaum 1984.

[4] Dehaene Stanislas, The Number Sense – How the Mind Creates Mathematics, p. 17, Penguin Books, London 1999. [Trad. dA].

[5] Dehaene Stanislas, op. cit., idem.

[6] Si vedano gli esperimenti seguiti a quelli paradigmatici di Cerella e le abilità di Alex, il pappagallo cinerino di Irene Pepperberg, in “Note” e “Aggiornamenti” su questo sito.

[7] Dehaene Stanislas, op. cit., pp. 28-31.

[8] Il nostro presidente ha raccontato che da bambino, ascoltata una sintesi delle idee di Piaget sull’intelligenza infantile, si era già reso conto degli errori: “Perché né io, né mia sorella, né gli altri bambini che conoscevo avevano mai pensato in quel modo” (dal “Seminario Permanente sull’Arte del Vivere” del 2006).

[9] Mehler J. & Bever T. G., Cognitive capacity of very young children. Science 158, 141-142, 1967.

[10] Wynn K., Addition and subtraction by human infants. Nature 358, 749-750, 1992. Si vedano anche: Wynn K., Origins of numerical knowledge. Mathematical Cognition 1, 35-60, 1995; Wynn K., Infants’ individuation and enumeration of actions. Psychological Science 7, 164-169, 1996.

[11] Dehaene Stanislas, op. cit., p. 57.